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giovedì 31 gennaio 2013

Come Votare Alle Prossime Elezioni


COME VOTARE ALLE PROSSIME ELEZIONI?

Seguendo i consigli del Papa (non quelli della stampa cosiddetta (''cattolica'') perché il cristiano vota secondo i principi non negoziabili (vita, famiglia, libertà di educazione)


di Giulia Tanel

Nell'ultimo periodo mi è capitato più volte di discutere di politica con amici cattolici e la domanda di fondo era sempre la stessa: "Ma noi cattolici chi possiamo votare alle prossime elezioni?". Chiarisco subito che non conosco la risposta a questa domanda e che non ritengo di avere le competenze politiche per dare consigli a nessuno. La cosa che mi interessa fare è solamente proporre alcune riflessioni. In primo luogo, è doveroso evidenziare che la Chiesa non dà ai fedeli indicazioni vincolanti circa il partito da votare, anche se qualche giorno fa un amico sosteneva ironicamente che "da qualche parte ci dev'essere scritto che i cattolici non possono votare a sinistra, forse è nella Bibbia". Quali sono dunque i criteri che i fedeli devono seguire nell'apporre la propria croce sulla carta elettorale? Ebbene, i cattolici sono chiamati a propendere per le fazioni politiche che dimostrano di promuovere e difendere i cosiddetti "principi non negoziabili", che Benedetto XVI ha mirabilmente dettagliato nel corso di un Convegno promosso dal PPE il 30 marzo del 2006. Riportiamo le parole del papa: «Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, l'interesse principale dei suoi interventi nella vita pubblica si centra sulla protezione e sulla promozione della dignità della persona e per questo presta particolare attenzione ai principi che non sono negoziabili. Tra questi, oggi emergono chiaramente i seguenti: la protezione della vita in tutte le sue fasi, dal primo momento del suo concepimento fino alla morte naturale; il riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia, come unione tra un uomo e una donna fondata sul matrimonio, e la sua difesa di fronte ai tentativi di far sì che sia giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che in realtà la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo ruolo sociale insostituibile; la protezione del diritto dei genitori ad educare i loro figli. Questi principi non sono verità di fede, anche se sono illuminati e confermati dalla fede; sono insiti nella natura umana, e pertanto sono comuni a tutta l'umanità. L'azione della Chiesa nella loro promozione non è quindi di carattere professionale, ma si dirige a tutte le persone, indipendentemente dalla loro affiliazione religiosa. Questa azione è anzi ancor più necessaria nella misura in cui questi principi sono negati o fraintesi, perché in questo modo si compie un'offesa alla verità della persona umana, una grave ferita provocata alla giustizia stessa». A quanto detto fino ad ora vorrei aggiungere un'ulteriore riflessione. Spesso si sente, in riferimento alla classe politica nostrana: "Caio sarebbe bravo, ma è attaccato ai soldi", "Sempronio si dice cattolico, ma poi non va a Messa", e via discorrendo. Tutte cose giuste, ci mancherebbe. Tuttavia fare affermazioni di questo genere significa fermarsi al nudo giudizio riguardo le azioni dei nostri fratelli, atteggiamento che peraltro conferma pienamente l'immagine evangelica per cui la pagliuzza nell'occhio altrui risulta essere molto più evidente della trave presente nel nostro.
Sinceramente, chi di noi può anche solo pensare di elevarsi a modello, sia nella fede che nella coerenza di vita? Ecco quindi che anche con i politici occorre essere clementi, proprio perché sono uomini come noi, peccati e debolezze comprese. L'importante è che, nel loro agire quotidiano in politica, portino avanti la difesa dei valori non negoziabili. Poi a casa loro sono liberi di comportarsi come credono: nella sfera privata, infatti, il giudizio spetta solo a Dio. In conclusione, lo ripeto: non so in quale partito possa riconoscersi un cattolico oggigiorno. L'importante è che, votando, si tengano a mente i valori non negoziabili sopra esposti e ci si ricordi - per dirla con uno slogan passato alla storia - che "nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!".

Fonte: Libertà e Persona, 11/12/2012

martedì 29 gennaio 2013

Preghiera a Gesù per le Anime del Purgatorio

                                   
Preghiera a Gesù per le Anime del Purgatorio

Gesù mio, per quel copioso sudore di sangue che spargesti nell'orto del Getsemani, abbi pietà delle anime dei miei più stretti parenti che penano nel Purgatorio. 

Padre nostro, Ave Maria, l'eterno riposo.

Gesù mio, per quelle umiliazioni e quegli schemi che soffristi nei tribunali fino ad essere schiaffeggiato, deriso e oltraggiato come un malfattore, abbi pietà delle anime dei nostri morti che nel Purgatorio aspettano di essere glorificate nel tuo Regno beato. Padre nostro, Ave Maria, l'eterno riposo.

Gesù mio, per quella corona di acutissime spine che trapassarono le tue santissime tempia, abbi pietà dell'anima più abbandonata e priva di suffragi, e di quella più lontana ad essere liberata dalle pene del Purgatorio. 

Padre nostro, Ave Maria, l'eterno riposo.

Gesù mio, per quei dolorosi passi che facesti con la croce sulle spalle, abbi misericordia dell'anima più vicina ad uscire dal Purgatorio; e per le pene che provasti insieme alla tua Santissima Madre nell'incontrarvi sulla via del Calvario, libera dalle pene del Purgatorio le anime che furono devote di questa cara Madre. 

Padre nostro, Ave Maria, l'eterno riposo.

Gesù mio, per il tuo santissimo corpo steso sulla croce, per i tuoi santissimi piedi e mani trafitti con duri chiodi, per la tua morte crudele e per il tuo santissimo costato aperto dalla lancia, usa pietà e misericordia presso quelle povere anime. Liberale dalle atroci pene che soffrono ed ammettile in Paradiso. 

Padre nostro, Ave Maria, l'eterno riposo.

Papa Benedetto XVI


“Dio ci dà i comandamenti perché ci vuole educare alla vera libertà, perché vuole costruire con noi un Regno di amore, di giustizia e di pace. Ascoltarli e metterli in pratica non significa alienarsi, ma trovare il cammino della libertà e dell’amore autentici, perché i comandamenti non limitano la felicità, ma indicano come trovarla“

(Papa Benedetto XVI)

lunedì 28 gennaio 2013

La Vita è La Scelta Che Non Si Rimpiange Mai


La VITA UMANA, quindi, è SACRA
perché fin dal suo inizio comporta l'azione creatrice di Dio
e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine.

Solo Dio è il Signore della vita

dal suo inizio alla sua fine:

nessuno, in nessuna circostanza,

può rivendicare a se

il diritto di distruggere

direttamente

un essere umano innocente.

Dal momento del concepimento,
la vita di ogni essere umano va rispettata in modo assoluto,
perché l'uomo è sulla terra l'unica creatura che Dio ha voluto per sè stesso,
e l'anima spirituale di ciascun uomo è immediatamente creata da Dio;
tutto il suo essere porta l'immagine del Creatore.

venerdì 25 gennaio 2013

La Conversione di Giuni Russo


Giuni Russo

(Palermo, 7 Settembre 1951 – Milano, 14 Settembre 2004)


La Conversione di Giuni Russo

“Meditava sugli “Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola” e ne rimase colpita. Ho ancora con me il libro che leggeva copiosamente, con le sue annotazioni e sottolineature. Si chiedeva chi potesse guidarla in questo esercizio, dove trovare il sacerdote o la comunità per vivere un’esperienza simile. Cominciò ad appassionarsi anche di Santa Teresa, Edith Stein e Giovanni della Croce fino al punto di musicarne alcuni poemi”. Così racconta Maria Antonietta Sisini, sua amica da sempre a Il Sussidiario, a 9 anni dalla morte di Giuni. Giuni Russo è stata una delle cantanti più dotate degli ultimi anni, con una estensione vocale di 4 ottave. Molti i critici che la preferiscono alla grande Mina Mazzini. Autrice di canzoni storiche, come Un’estate al Mare o di Alghero, si è convertita improvvisamente al cattolicesimo, arrivando addirittura ad interpretare la canzone “La sposa” assieme alle Carmelitane Scalze del monastero di Milano. “Giuni -racconta la Sisini- era di casa in quel monastero a tal punto che scelse, in punto di morte, d’essere lì seppelita. Durante l’agonia, vidi lei fissare un angolo della stanza. Il suo viso si illuminò, cambiò d’aspetto. Sorrise meravigliata come se in quella stanza ci fosse una presenza celestiale. In fondo, Giuni era una persona innamorata di Cristo”.

Giuni Russo una delle voci piu belle di sempre della musica italiana.
è stata una cantautrice e musicista italiana di musica pop sperimentale.

Messaggio dato dalla Madonna a Marija il 25 Gennaio 2013 a Medjugorje


Messaggio dato dalla Madonna a Marija il 25 Gennaio 2013 a Medjugorje

Cari figli Anche oggi vi invito alla preghiera. La vostra preghiera sia forte come pietra viva affinché con le vostre vite diventiate i testimoni. Testimoniate la bellezza della vostra fede. Io sono con voi e intercedo presso il mio Figlio per ognuno di voi. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.

giovedì 24 gennaio 2013

Luci e Ombre Di Rita Levi Montalcini


LUCI E OMBRE DI RITA LEVI MONTALCINI

Sei atea e a favore di eutanasia, fecondazione artificiale e aborto? Ti meriti il nobel, diventi senatrice a vita e tutti ti applaudono in vita e alla tua morte... ma nell'aldilà?

di Giovanna Arcuri

Il politicamente corretto ha le sue regole e sono regole ferree. Una di queste impone che di alcuni personaggi della cultura, della politica, delle arti etc non si possa che parlare bene, anzi benissimo. I distinguo sull'operato di questi soggetti vengono giudicati, ben che vada, come un'operazione di cattivo gusto. Rita Levi Montalcini, deceduta lo scorso 30 Dicembre all'età di 103 anni, forse appartiene alla schiera di questi intoccabili, perché oggi ricevere un Nobel – un qualsiasi nobel – è salire agli onori degli altari laici già in vita, immaginarsi quando poi si è morti. Nessuno discute qui le sue capacità scientifiche (non è il nostro compito), ma il successo come scienziati non ne autorizza la beatificazione. In realtà nella vita della Montalcini ci sono luci e ombre. La sua esistenza sin da giovane è segnata dalla sofferenza: di origine ebraica, nel 1938 deve lasciare l'Italia a seguito delle leggi razziali e riparare in Belgio. Ma l'esilio dura poco: nel '40 scappa di nuovo, lascia il Belgio a motivo dell'invasione di Hitler e fa ritorno in Italia. Nel 1974 la Chiesa le chiede, prima donna, di entrare a far parte della Pontificia Accademia delle Scienza. Questo a riprova che la Barca di Pietro accoglie tutti, anche persone di credo differente. Anzi nel caso della Montalcini persino persone per nulla credenti. Infatti, intervistata da Piergiorgio Odifreddi nel sul libro "Incontri con menti straordinarie", alla domanda se credesse in Dio lei risponde: "Sono atea. Non so cosa si intenda per credere in Dio". Quindi nessuna discriminazione verso l'atea Montalcini da parte della Chiesa e stesso atteggiamento di rispetto del premio Nobel verso la Chiesa. Infatti in occasione della lettera appello di 63 docenti nel gennaio del 2008 affinché il Santo Padre non mettesse piede all'Università La Sapienza per tenere una lectio magistralis, la Montalcini, pur essendo stata invitata ad aderire, rifiuta di sottoscrivere l'appello. Nonostante ciò gira voce sui giornali che ci sia almeno un'adesione privata se non pubblica e formale, ma il premio Nobel smentisce categoricamente e fa sapere per bocca dell'Osservatore Romano che "in qualità di membro della Pontificia Accademia delle Scienze e dell'ammirazione che nutro verso il Pontefice non avrei mai espresso quanto attribuitomi". La ricerca scientifica, che la condusse a vincere il Nobel per la medicina nel 1986, fu una vera vocazione che la assorbì completamente tanto che forse per questo motivo non si sposò mai. Di certo interpretava la sua professione come una missione. Infatti ebbe a dire nel 2009 in occasione di una cerimonia presso l'Istituto Superiore della Sanità per celebrare i suoi 100 anni: "Non ero nata per fare lo scienziato, ma per andare in Africa ad aiutare chi ne ha bisogno. Da adolescente volevo andare in Africa come Albert Schweitzer e curare i lebbrosi. Adesso, nell'ultima tappa della mia vita, esaudisco il desiderio di aiutare popolazioni sfruttate. Posso dire che l'unico motivo per cui ho lavorato è stato aiutare gli altri". Tale slancio verso il prossimo è testimoniato anche dal fatto che lei, seppur atea, devolse parte dei proventi del premio Nobel a favore della Comunità ebraica di Roma per la costruzione di una sinagoga. Comprendeva anche i limiti della ricerca scientifica e non la venerava come una nuova religione che avrebbe liberato l'uomo dalle superstizioni e dai falsi miti. Infatti in occasione di un'intervista rilasciata al Corriere della Sera nel Novembre del 2006 tenne a precisare che "gli scienziati non detengono il monopolio della saggezza. La soluzione dei problemi che affliggono l'intero genere umano, fino a porne in pericolo la sopravvivenza, spetta in pari misura a filosofi, uomini di religione, educatori e appartenenti ad altre discipline". Queste sono alcune luci della vita della Montalcini. Ma ci sono anche ombre. Sempre nell'intervista appena citata la Montalcini rende noto che si allinea al darwinismo duro e puro: "La recente rinascita del movimento creazionista, basata sulla concezione del 'disegno intelligente', nega la validità delle selezione darwiniana. Una negazione, questa, derivante dall'ignoranza delle rigorose prove dei nuovi apporti della genetica". Insomma chi nega che dietro il creato c'è un Creatore pecca di ignoranza. Ma proseguiamo nella lettura dell'articolo: "Personalmente, pur dichiarandomi laica o meglio agnostica e libera pensatrice, mi ritengo tuttavia profondamente 'credente', se per religione si intende credere nel bene e nel comportamento etico: non perseguendo questi principi, la vita non merita di essere vissuta". Cosa stona in questa frase che tutti sposeremmo appieno? Stona il fatto che il "credere nel bene e nel comportamento etico" per la Montalcini significava essere a favore di eutanasia, fecondazione artificiale e aborto. Nell'articolo citato la giornalista Barbara Palombelli le chiede cosa pensi dell'eutanasia. Ecco la sua risposta: "Nessuno ha il diritto di sopprimere la vita, l'eutanasia potrebbe essere concessa, sempre e soltanto nella fase terminale di malattie che provocano gravi sofferenze, in seguito a processi degenerativi o neoplastici senza speranza di guarigione. Sono favorevole all'eutanasia soltanto per la propria persona attraverso un testamento 'biologico' stilato, a norma di legge, in pieno possesso delle proprie facoltà mentali, nel quale si dichiari che qualora non si fosse più in grado di possedere le facoltà di intendere e di volere, una commissione di medici esperti può porre fine alle gravi sofferenze o ad una vita priva di capacità cognitive". Al tempo del referendum per abrogare alcune parti della legge 40 che disciplina la fecondazione artificiale l'associazione radicale Luca Coscioni la intervista per sapere le sue intenzioni di voto. "Voto naturalmente quattro Sì – risponde la Montalcini – perché penso che la legge 40 ci voleva, ha riempito un vuoto ma non l'ha riempito in modo soddisfacente e per va ampiamente revisionata. Su molte cose non sono d'accordo: l'impianto di embrioni senza l'analisi preventiva è assurdo, l'impianto dei tre embrioni è contro la donna, è tutto contro la salute della donna. Sono anche a favore dell'eterologa perché è permissiva e non costrittiva. Quindi ritengo che noi dobbiamo votare – non bisogna astenersi perché è assurdo – e bisogna votare per quattro Sì, che mi pare tengano conto di cose che, non si sa perché, la legge 40 non aveva esaudito come si doveva. Nutro vivamente la speranza di una vittoria del Sì perchè se dovesse vincere il No, secondo me, torniamo al Medioevo." E poi un appello: "Per il bene vostro e dei vostri figli voi dovete andare a votare, perché senza questo voto torniamo molto indietro, finiremo, probabilmente, per eliminare anche la legge sull'aborto". Per inciso, sull'aborto, la Montalcini negli anni Settanta fece parte Movimento di Liberazione Femminile per la regolamentazione dell'aborto. Non cambiò mai idea. Infatti il 25 Novembre 2009 all'Università Bicocca di Milano in occasione del "Sysbiohealth symposium 2009" dichiarò: la pillola abortiva RU486 "ha dato risultati straordinari. Penso molto bene di questo farmaco. Conosco colui che l'ha scoperto, è venuto da me e posso dire che i risultati sono straordinari". Una vera entusiasta della morte chimica del nascituro. In merito alla ricerca sugli embrioni il premio Nobel non ha dubbi: la legge 40 "limita la ricerca – afferma il 12 Aprile 2005 presso la Facoltà di Medicina dell'Università di Firenze - non ammettendo neppure l'uso di embrioni che purtroppo sarebbero votati ad essere gettati via. Non si devono fare gli embrioni per la ricerca scientifica, è assurdo, ma quelli che abbiamo in soprannumero debbono essere utilizzati perchè le possibilità delle cellule staminali embrionali sono enormemente superiori a quelle delle cellule adulte". Affermando lei nobel – a margine – una vera e propria inesattezza scientifica, dato che le staminali adulte ad oggi hanno ottenuto risultati ben più promettenti delle staminali embrionali. Perché tanto plauso a favore della sperimentazione sugli embrioni? Perché l'embrione non è una persona. "L'embrione – dichiara a Repubblica nell'Aprile del 2005 - è un ammasso di poche cellule privo della linea cerebrale che dà la possibilità di vita umana. La discussione se l'embrione è persona o no si trascina da molti secoli e sarà probabilmente sempre tale, ai limiti tra la legge, la morale, la scienza e la religione: ciò che non deve essere fatto è imporre per legge una credenza ideologica, religiosa e morale a tutti". Una figura quindi da incensare senza se e senza ma? Il caso della Montalcini pare che ci conforti nel dire che la regola dei distinguo valga ben più della regola del politicamente corretto.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 02/01/2013

domenica 20 gennaio 2013

Papa Benedetto XVI Angelus Domenica 20 Gennaio 2013


ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 20 Gennaio 2013

Cari Fratelli e Sorelle

Oggi la liturgia propone il Vangelo delle nozze di Cana, un episodio narrato da Giovanni, testimone oculare del fatto. Tale episodio è stato collocato in questa domenica che segue immediatamente il tempo di Natale perché, insieme con la visita dei Magi d’oriente e con il Battesimo di Gesù, forma la trilogia dell’epifania, cioè della manifestazione di Cristo. Quello delle nozze di Cana è infatti «l’inizio dei segni» (Gv 2,11), cioè il primo miracolo compiuto da Gesù, con il quale Egli manifestò in pubblico la sua gloria, suscitando la fede dei suoi discepoli. Richiamiamo brevemente ciò che accadde durante quella festa di nozze a Cana di Galilea. Accadde che venne a mancare il vino, e Maria, la Madre di Gesù, lo fece notare a suo Figlio. Egli le rispose che non era ancora giunta la sua ora; ma poi seguì la sollecitazione di Maria e, fatte riempire d’acqua sei grandi anfore, trasformò l’acqua in vino, un vino eccellente, migliore del precedente. Con questo “segno”, Gesù si rivela come lo Sposo messianico, venuto a stabilire con il suo popolo la nuova ed eterna Alleanza, secondo le parole dei profeti: «Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5). E il vino è simbolo di questa gioia dell’amore; ma esso allude anche al sangue, che Gesù verserà alla fine, per sigillare il suo patto nuziale con l’umanità.

La Chiesa è la sposa di Cristo, il quale la rende santa e bella con la sua grazia. Tuttavia questa sposa, formata da esseri umani, è sempre bisognosa di purificazione. E una delle colpe più gravi che deturpano il volto della Chiesa è quella contro la sua unità visibile, in particolare le storiche divisioni che hanno separato i cristiani e che non sono state ancora superate. Proprio in questi giorni, dal 18 al 25 gennaio, si svolge l’annuale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, un momento sempre gradito ai credenti e alle comunità, che risveglia in tutti il desiderio e l’impegno spirituale per la piena comunione. In tal senso è stata molto significativa la veglia che ho potuto celebrare circa un mese fa, in questa Piazza, con migliaia di giovani di tutta Europa e con la comunità ecumenica di Taizé: un momento di grazia in cui abbiamo sperimentato la bellezza di formare in Cristo una cosa sola. Incoraggio tutti a pregare insieme affinché possiamo realizzare «Quello che esige il Signore da noi» (cfr Mi 6,6-8), come dice quest’anno il tema della Settimana; un tema proposto da alcune comunità cristiane dell’India, che invitano ad impegnarsi con decisione verso l’unità visibile tra tutti i cristiani, e a superare, come fratelli in Cristo, ogni tipo di ingiusta discriminazione. Venerdì prossimo, al termine di queste giornate di preghiera, presiederò i Vespri nella Basilica di San Paolo fuori le mura, alla presenza dei Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali.

Cari amici, alla preghiera per l’unità dei cristiani vorrei aggiungere ancora una volta quella per la pace, perché, nei diversi conflitti purtroppo in atto, cessino le ignobili stragi di civili inermi, abbia fine ogni violenza, e si trovi il coraggio del dialogo e del negoziato. Per entrambe queste intenzioni, invochiamo l’intercessione di Maria Santissima, mediatrice di grazia.

Dopo L'Angelus

Saluto cordialmente tutti i Polacchi. È in corso la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il suo tema è ispirato da alcune parole del profeta Michea: “Quel che il Signore esige da noi” (cfr. Mi 6,8). La nostra risposta sia la preghiera, il sincero dialogo ecumenico, la ricerca della verità, i gesti di reciproca intesa e di riconciliazione. Lo Spirito Santo ci unisca nella comune professione della fede e faccia che “tutti siamo una cosa sola” (cfr. Gv 17,21). Benedico di cuore le vostre aspirazioni ecumeniche.

E infine saluto i pellegrini di lingua italiana, le famiglie, i fedeli di diverse parrocchie, di associazioni e di movimenti. A tutti auguro una buona domenica, una buona settimana. Grazie. Buona domenica!

venerdì 18 gennaio 2013

Settimana di Preghiera per L'Unità dei Cristiani 18-25 Gennaio 2013


Settimana di Preghiera per L'Unità dei Cristiani

18 - 25 Gennaio 2013

Quel che il Signore esige da noi
(cfr. Michea 6, 6-8)



Quest'anno la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani ci invita a riflettere sull'importantissimo e ben noto testo del profeta Michea: "Quale offerta porteremo al Signore, al Dio Altissimo, quando andremo ad adorarlo? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio? Gli daremo in sacrificio i nostri figli, i nostri primogeniti per ricevere il perdono dei nostri peccati? In realtà il Signore ha insegnato agli uomini quel che è bene quel che esige da noi: praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio" (6, 6-8). Il libro del profeta Michea esorta il popolo a camminare in pellegrinaggio: "Saliamo sulla montagna del Signore, ed Egli ci insegnerà quel che dobbiamo fare e noi impareremo come comportarci" (4, 2). Di grande rilievo, dunque, è la sua chiamata: "camminare in questo pellegrinaggio, a condividere nella giustizia e nella pace, ove troviamo la vera salvezza". È verità indiscutibile che la giustizia e la pace - ricorda il profeta Michea -, costituiscono una forte e salda alleanza fra Dio e l'umanità, attraverso cui si crea una società costruita sulla dignità, sull'uguaglianza, sulla fraternità e sul reciproco "svuotamento" (kenosis) delle passioni. È poi incontestabile che la vera fede in Dio è inseparabile dalla santità personale, come anche dalla ricerca della giustizia sociale.
Al tempo della predicazione del profeta Michea il popolo di Dio doveva affrontare
l'oppressione e l'ingiustizia di coloro che intendevano negare la dignità e i diritti dei poveri. Lo sfruttamento dei poveri era - ed è - un fatto reale: "Voi divorate il mio popolo. Lo spellate, gli rompete le ossa", dice il profeta (3, 3). In modo simile, oggi, il sistema delle caste, con il razzismo e il nazionalismo, pone severe sfide alla pace dei popoli, e in tanti paesi; altre caste, con diversi nomi, negano l'importanza del dialogo e della conversazione, la libertà nel parlare e nell'ascoltare. A motivo di questo sistema delle caste, i Dalits, nella cultura indiana, "sono socialmente emarginati, politicamente sotto-rappresentati, sfruttati economicamente e soggiogati culturalmente" Noi, come seguaci del "Dio della vita e della pace", del "Sole della giustizia", secondo l'Innologia dell'Oriente Ortodosso, dobbiamo camminare nel sentiero della giustizia, della misericordia e dell'umiltà, realtà e tema di eccellente significato e di attualità che saranno sviluppati con dinamismo dalla X Assemblea generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, in programma nel 2013 a Busan, nella Corea del Sud. "Dio della vita, guidaci verso la giustizia e la pace" è il tema dell'Assemblea, e risuonerà come un forte appello a tutti i popoli a camminare insieme, comunitariamente, nel sentiero della giustizia che conduce alla vita e alla salvezza. Dunque, la nostra salvezza dalla schiavitù e dall'umiliazione quotidiana più che semplicemente con riti solo formali, sacrifici e offerte (Mic 6, 7), richiede da noi il "praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio" (6, 8). Con chiarezza il profeta Michea mette in evidenza, da una parte, il rigetto dei rituali e dei sacrifici impoveriti dalla mancanza del senso della misericordia, dell'umiltà e della giustizia, e dall'altra dimostra l'aspettativa di Dio che la giustizia debba essere al cuore della nostra religione e dei nostri riti. È la volontà di Dio, il suo desiderio di procedere nel sentiero della giustizia e della pace, facendo quel che Dio esige da noi. Giovanni Paolo II ha affermato che "qualsiasi espressione di pregiudizio, basata sulle caste, in relazione ai cristiani, è una contro-testimonianza dell'autentica solidarietà umana, una minaccia alla genuina spiritualità e un serio ostacolo alla missione di evangelizzazione della Chiesa". Mentre il Papa Benedetto XVI proclama così: "Anche se nel mondo il male sembra sempre prevalere sul bene", a vincere alla fine è "l'amore e non l'odio", perché "più forte è il Signore, il nostro vero re e sacerdote Cristo, e nonostante tutte le cose che ci fanno dubitare sull'esito positivo della storia, vince Cristo e vince il bene", il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I ha dichiarato con fermezza: "Promuoviamo l'universalità della carità al posto dell'odio e dell'ipocrisia, promuoviamo l'universalità della comunione e della collaborazione al posto dell'antagonismo". In modo simile si sono pronunciati anche gli altri Capi delle diverse chiese e confessioni cristiane.
La celebrazione della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani è un vero e forte segno di amore e di speranza, di aiuto spirituale e morale, e l'unità dei cristiani sarà un dono dello Spirito Santo. Camminare umilmente con Dio significa anzitutto camminare nella radicalità della Fede, come il nostro padre Abramo, camminare in solidarietà con coloro che lottano per la giustizia e la pace, e condividere la sofferenza di tutti, attraverso l'attenzione, la cura e il sostegno verso i bisognosi, i poveri e gli emarginati. Infatti, camminare con Dio significa camminare oltre le barriere, oltre l'odio, il razzismo e il nazionalismo che dividono e danneggiano i membri della Chiesa di Cristo. San Paolo afferma: "Con il battesimo, infatti siete stati uniti a Cristo e siete stati rivestiti di Lui come di un abito nuovo. Non ha più alcuna importanza l'essere Ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo, tutti voi siete diventati un solo uomo" (Gal 3, 28). Ogni uomo è "icona di Dio", secondo la dottrina dei Santi Padri Greci della Cappadocia, e, conseguentemente, incontrandolo nella strada, incontriamo Cristo, e, servendolo, serviamo lui, che "infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10, 45). Amore e giustizia si incontrano e conducono alla salvezza, hanno la stessa origine e conducono alla vita eterna. Il monaco Efrem di Siro, grande asceta dell'Oriente Ortodosso ed eccellente scrittore di preghiere mistiche, sottolinea: "Se amerai la pace trapasserai il grande mare della vita con serenità. Se amerai la giustizia troverai la vita eterna", prospettiva che ci fa comprendere che la pace e l'unità sono piene solo se si fondano nella giustizia: "Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati" (Mt 5, 6).

giovedì 17 gennaio 2013

Video Integrale Apparizione a Mirjana 2 Gennaio 2013 a Medjugorje


lunedì 14 gennaio 2013

Le Parole Pronunciate Da Gesù Sulla Croce

               
 
Le parole pronunciate da Gesù sulla Croce


Dobbiamo accostarci al letto di morte di Gesù con la predisposizione d'animo che avremmo se su quel letto ci fosse una persona a noi molto cara, un nostro parente, un fratello, una sorella, la madre, il padre o i figli. Solo con questa predisposizione riusciremo a capire ed a vivere il significato profondo della croce.
"Nessuno ha un amore più grande di questo, di uno che da la vita per i suoi. E Io quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me"
Queste sono le Sue parole e se noi vogliamo gloriarci nella vita, dobbiamo gloriarci solo in questo, nella Croce di Gesù. Anche se per ipotesi impossibile, la Resurrezione non fosse mai avvenuta e la Passione di Gesù fosse terminata con quest'ultima espressione e lo crocefissero là", avremo ugualmente contemplato il trionfo dell'amore umano, il grande sacrificio che diede un nuovo volto all'umanità.

"E LO CROCEFISSERO LA"

 

Tutti si sono fermati su semplici parole come: tradizione, storia, archeologia, arte, letteratura, filosofia e teologia senza inneggiare alla gloria della croce.
Tante generazioni sono trascorse da allora, ed un gran numero di persone ha potuto contemplarla, ma non tutti sono arrivati alla stessa conclusione, non tutti hanno accolto il messaggio della sua missione. Il cristiano è chiamato a contemplare la croce ed a sentirne tutto il peso. Ci soffermiamo sul significato delle frasi che Gesù disse dopo essere stato innalzato da terra. 

La prima parola: "Padre perdona loro"

I profeti avevano detto di Lui “Egli non avrebbe spezzato una canna incrinata”, e Gesù rispose: “non sono venuto per giudicare il mondo, ma perché il mondo fosse salvato per mezzo mio”.Nei suoi insegnamenti accennava spesso al perdono :”Perdonate e vi sarà perdonato”, nel Padre Nostro, fate del bene anche ai vostri nemici, a chi vi odia, pregate per quelli che vi perseguitano, quando volevano lapidare la prostituta disse:”donna, chi ti ha condannato?Voleva essere il modello degli uomini: “Io sono la via della verità e la vita”, dimostrando e confermando in tutto quello che diceva e faceva il modello di vita da seguire e da imitare.
Doveva perciò far brillare il perdono come ultimo documento a conferma che Egli realmente era il Figlio di Dio. Dal trono su cui stava inchiodato, elevato all’altezza di poter attirare tutti a se, nel momento solenne d’essere proclamato Redentore del mondo, era necessario che compisse un atto di perdono divino. Nel Suo perdono aveva incluso (ed ha incluso) tutti quelli che desideravano essere “Figli del Padre che è nei cieli”.Fece in modo che le sue parole fossero percepite bene ai presenti, perché l’implorazione di Cristo che chiedeva perdono per i suoi carnefici, fosse d’esempio per i suoi insegnamenti.
“Se sei Figlio di Dio scendi dalla croce” dicevano i persecutori come prova delle Sue affermazioni.
Quando gli sputarono in faccia non disse niente “Se uno ti da uno schiaffo, porgi l’altra guancia”, quando lo derisero e lo maltrattarono non poteva e non voleva difendersi, perché solo nel Padre aveva la Sua difesa e perché non voleva ribellarsi alla Sua volontà, perciò, ancora una volta chiese al Padre di perdonare.

La seconda parola "Oggi sarai con me in Paradiso" 
 
Sul pianoro roccioso accanto alle tre croci stavano quattro romani a fare la guardia.
A loro non importava la regalità di Gesù, erano soldati istruiti ed addestrati alla crudeltà ed il loro compito era quello di tenere a bada la folla.
Questa folla era agitata ed istigata dai Sommi sacerdoti ad insultare Gesù.
I sacerdoti videro Gesù innalzato da terra con le mani ed i piedi inchiodati, con le corde che tenevano stretti i polsi e le caviglie ed il torace per evitare che i chiodi strappassero la carne, pensarono di aver finalmente vinto e visto che il loro desiderio maligno era una realtà palpabile, erano felici. “Non scenderà più dalla croce”, si dicevano e l’atteggiamento di sottomissione e di dolore di Gesù dava loro la sicurezza che ogni Suo potere sicuramente era svanito.
Anche se prima Egli aveva operato dei miracoli indiscutibili, vedendolo sulla croce i soldati pensavano che erano stati tutti trucchi ben costruiti.
Se realmente aveva salvato tante persone, perché non dimostrava la Sua potenza salvando se stesso?
Gli avevano chiesto di scendere dalla croce per dimostrare che Egli era Figlio di Dio, ma Egli rifiutò.
Dissero: ”Se sei il Cristo, Figlio di Dio, Re d’Israele, se hai il potere di distruggere il tempio e riedificarlo in tre giorni, salva te stesso, tutti saranno testimoni e noi crederemo”, senza aggiungere però “noi crederemo se dopo la Tua morte vedremo il Tuo corpo risorto”.
Perché quel Suo Padre più potente di Lui e che era sempre con Lui non mandava degli angeli a salvarlo?
Quello era il momento ideale per far valere i suoi diritti.
Erano tutti agitati, e più il tempo passava più urlavano, perché avevano paura che Gesù accettasse la loro sfida. Ma Gesù non disse e non fece niente, facendo brillare la Sua generosità offrendo per primo e per tutti un esempio d’amore indulgente nell’agonia e nella morte rimanendo sulla croce fino all’ultima goccia del Suo sangue ed adempiendo così fino all’ultimo la volontà del Padre.
Anche i soldati romani ripetevano gli insulti rivolti a Gesù alzando i calici colmi di vino ed invitandoLo a brindare con loro; dicevano: “Tu che ti sei degnato di mangiare e bere con i pubblicani ed i peccatori, puoi degnarti di bere un sorso con noi!.
Egli si poteva aspettare un simile comportamento dai soldati, dagli scribi e dai farisei, ma quel giorno anche i pubblicani che aveva sempre difeso gli erano contro e l’oltraggio che lo feriva di più era quello che veniva dalle croci ai Suoi fianchi.
Tutto questo anche se era stato considerato amico e difensore dei pubblicani e dei peccatori, anche se aveva affermato che nel Regno dei Cieli c’era posto anche per loro e, attraverso le parabole mostrava la Sua preferenza per gli oppressi, per la pecorella smarrita ed il figliol prodigo avvilito, chiunque gli chiedeva aiuto lo esaudiva, ed era riconosciuto come l’unto del Signore, il Figlio di Dio.
Un paralitico era andato da Lui implorando la guarigione e se ne ritornò guarito, una prostituta cadde ai Suoi piedi e divenne una delle Sue creature predilette, un apostolo lo confessò come Figlio di Dio ed Egli lo nominò Capo della Sua Chiesa universale.
Ma in quel momento l’avevano lasciato tutti a ricevere un’ingiusta ricompensa.
Egli aveva dichiarato di essere un Re ma non di questo mondo e che doveva prendere possesso del Suo Regno attraverso la barriera della morte.
Ai Suoi fianchi c’erano i due malfattori e uno di essi lo insultava mentre l’altro Gli chiedeva di ricordarsi di Lui quando era nel Suo Regno; così avrebbe potuto morire in pace. Sapeva in chi doveva riporre la sua fede anche se apparentemente era sconfitto in croce.
Colui che era stato mandato per le pecore smarrite non si era fatto aspettare dal peccatore smarrito ma si era affrettato ad accoglierlo nel Suo ovile.
Possiamo soffermarci, come ha fatto Gesù, su questa espressione del suo compagno di sventura sulla croce, il peccatore pentito, il buon ladrone com’è stato chiamato:”In verità noi riceviamo ciò che è giusto per il nostro comportamento, Ma quest’uomo non ha fatto nulla di male”.

E diceva a Gesù: “Signore, ricordati di me quando sarai giunto nel Tuo Regno”.
E’ stato un atto di fede che ha fatto breccia nel cuore di Gesù che aveva premiato sua Madre tempo prima a Cana, che aveva esaltato la fede del centurione romano a Cafarnao, che aveva glorificato nella regione di Tiro la fede della donna sirofenicia e quella di Simone per la sua coraggiosa professione di fede e così, per la stessa professione, premia questo ladrone.
“Ricordarlo” era l`unica cosa che il moribondo chiedeva sul letto di morte e Gesù volse il capo verso il compagno di pena e parlò con formula solenne come era abituato a fare quando annunciava la verità e disse:”in verità ti dico che oggi tu sarai con me in paradiso.”
 
La terza parola: “Ecco tuo figlio” 
 
I farisei, mentre contemplavano la loro vittima sconfitta in croce, cominciavano a dare segni di stanchezza, giacché ormai avevano raggiunto il loro scopo ed aspettavano solo la Sua morte.
La folla andava disperdendosi verso Gerusalemme, stanca di vedere quelle figure in croce e cercando altre distrazioni. Era la vigilia della grande solennità di Pasqua e sia nel Tempio che nel mercato, regnava un gran trambusto prima del tramonto; preghiere di ringraziamento, doni da acquistare per poi offrire al tempio, per attenersi all’osservanza della legge, tutto per la gloria di Jahvé, quindi la folla che era sul Golgota “detto cranio” stava ritornando nella città. Le guardie divennero più remissive, avendo assolto il compito di sorvegliare la folla e permisero ai pochi rimasti di avvicinarci a Gesù, così, a poco a poco, si formò un gruppetto di donne.
San Giovanni ne nomina tre: “Ora presso la croce di Gesù stavano la Madre, Maria di Cleofa e l’altra Maria” (Maria Maddalena). Maria, Sua Madre, era là ad assisterlo, insanguinato e morente come un volgare assassino.Da trentatré anni lei sapeva che la fine sarebbe stata orrenda ed il momento era giunto.
Fin dal primo giorno che Gli dava le sue cure nella capanna di Betlemme, sapeva che il Figlio di Dio avrebbe aperto la strada del trono di Suo Padre, attraverso sofferenze e tribolazioni.
Non aveva mai dimenticato quello che le aveva detto il vecchio Simeone quando l’aveva offerto al Padre presentandolo nel tempio: “Questo bambino è destinato ad essere causa di rovina o di resurrezione di molti in Israele, a diventare un segno di contraddizione ed a te una spada trapasserà l’anima e così saranno rivelati i pensieri di molti cuori”.
La stessa vita del suo bambino era costata la morte di molti innocenti ed il pianto disperato di molte madri. Più tardi, lo smarrimento nel tempio per tre giorni, fu un triste richiamo ad una separazione più lunga e più dolorosa. Quando Gesù la lasciava per andare a predicare la venuta del Suo Regno, si chiedeva sempre quando sarebbe giunto quel momento d’angoscia. Ora la profezia si avverava e lei, col suo cuore straziato, avrebbe preferito essere al suo posto sulla croce.
Gesù non poteva rimanere indifferente a quel cuore straziato di madre.
Lui, l’amante dell’eternità, vedendo sua Madre ed i suoi amici ai piedi della croce, posò il Suo dolce sguardo su di loro. Qui sul Calvario, con il cuore spezzato, vide Sua Madre ai piedi della croce e ritornava in Lui più vivo e più vero il desiderio di amore reciproco.
Solo Lui poteva dire “Non c’è amore più grande di quello di chi offre la sua vita per l’amico”.
Con la morte di Gesù, sembrava che la vita di Maria finisse, ma Egli non lo permise perché l’ora di Maria non era ancora giunta.
Anche se Egli moriva per molti, volle che Sua Madre continuasse a vivere per molti, perché “si rivelassero i pensieri di molti cuori!”
Maria aveva ancora tanto da dare in questa valle di lacrime ed Egli doveva trovare qualche mezzo per sostenerla. Senza Gesù la vita di Maria non poteva che essere estremamente solitaria, si doveva perciò trovare qualcosa che colmasse il vuoto che Lui lasciava.
Era necessario che trasmettesse il Suo amore di Madre su un figlio adottivo sul quale Lei potesse espandere le Sue attenzioni.
Vicino a Maria c’era Giovanni, quel Giovanni che Gesù amava che era il discepolo prediletto e che diventò il figlio adottivo ricevendo in eredità l’amore di Gesù in Maria. E Gesù, vedendo sua Madre e vicino a lei il discepolo che amava, disse:”Donna, ecco tuo figlio.” Poi disse al discepolo “Ecco tua Madre” e da quel momento il discepolo la prese con sè.
Con quest’ultimo dono, Gesù si privò di quanto aveva di più prezioso, conferendo a Maria la maternità di tutto il genere umano, donando agli uomini la Sua stessa Madre, affinché fosse sempre con loro.
Aveva dato luogo ad una realtà completa: Maria, la nuova Madre degli uomini, diventò la seconda Eva.
Questo è il primo frutto che germinò dal Suo sangue sparso per molti.



La quarta parola: “Perchè mi hai abbandonato?

Accanto al Cristo in croce erano rimasti in pochi, nonostante che il cielo si oscurava, dentro le mura della città continuava il mercato, come se quello che stava accadendo non potesse interessare quel popolo.Per loro era un’esecuzione normale; un malfattore stava per pagare per i suoi misfatti.
Sul monte Tabor, improvvisamente, si fece un silenzio solenne, Gesù, levati gli occhi al cielo, fece sentire la Sua voce implorante. Parlava in ebraico, la lingua dei profeti e dei salmi e non era capito da tutti i presenti, ma tutti comprendevano che stava implorando Eloi. In quel tempo nessuno si permetteva di chiamare Dio con il proprio nome, ma chiamavano Dio Eloi, Jahvé, solo Gesù poteva chiamarlo con il suo vero nome. Si esprimeva con voce alta, più alta di quella che ci si aspetterebbe da un uomo vicino a morire.
“Era circa l’ora nona, Gesù gridò a voce alta: Eloi, Eloi, lamma sabactami?” che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Evidentemente una preghiera, qualcosa di più della semplice citazione di un salmo.
Nella sua agonia Gesù aveva offerto ogni sorta di dolori senza lasciarsi sfuggire una sola parola di lamento. Giuda l’aveva tradito e Gesù lo chiamava “amico”. Gli misero le mani addosso, lo schiaffeggiarono, Pietro lo rinnegò e Gesù, in risposta, “lo fissò” e nulla più, Anna, Caifa, Pilato erano passati in ogni genere di contraddizione, ma Gesù non disse una parola, le uniche parole pronunciate da lui erano a tutela della verità.

I dolori fisici si erano accumulati su di lui, e se ne vedevano i segni in tutto il corpo. Ma l’uomo dei dolori, l’amico dei ciechi e degli sventurati, che aveva attirato a se i sofferenti per soccorrerli e consolarli, non disse una parola. C’era però uno strazio più nero di ogni dolore, uno strazio che ci sembrerebbe quasi impossibile se non ne avessimo avuto conferma nelle sue stesse parole. Parole che aveva cominciato a pronunciare nell’orto, dove aveva assunto la parte del peccatore.

San Paolo dice “Egli si era fatto il peccato vivente”, ma aveva sempre la possibilità di invocare il “Padre” in aiuto. Gesù fu costretto ad assaporare la privazione del Padre dal quale si sentiva abbandonato. Non disse: “Padre, se è possibile…”, ma invece, in un gemito, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Gesù si addossò tutti i dolori umani, bevve il calice di ogni miseria umana, volle conoscere la tribolazione che è “la notte oscura dell’anima”, notte che poche persone di preghiera possono sfuggire unendosi intimamente a Gesù. L’abbiamo ammirato più volte come uomo di preghiera, ora, nell’ultimo istante, si presenta a noi in completa desolazione.


La quinta parola: “Ho sete” 
 
I soldati che facevano la guardia a Gesù, udirono la vittima morente che invocava il Padre con il nome di “Eloi”, ma non erano in grado di capire tutta la frase. Avevano una vaga conoscenza dell’aramaico e l’unica parola che riuscirono a capire fu “Eloi”. Avevano sentito di una strana favola di un uomo che si chiamava Elia che, a quanto assicuravano i giudei, era stato trasportato in cielo su un carro di fuoco e forse quest’uomo, che si riteneva un profeta, invocava il ritorno di Elia per liberarsi. Intanto Gesù continuava la sua preghiera, sembrava che per lui la vita non avesse nessun altrosignificato. Rimaneva un’altra profezia per il compimento dell’opera intera, un altro segno davanti al quale, più tardi, quelli che apriranno gli occhi crederanno, e il salmista aveva lasciato scritto:”A Te è ben noto l’oltraggio ch’io soffro, stanno a te innanzi tutti i miei nemici. Il mio cuore è spezzato dall’oltraggio, insaziabile è la vergogna e l’onta, attendevo da te un conforto che non venne, e non trovai consolatori. E per cibo essi mi han dato il fiele, alla mia sete mi hanno dato da bere aceto”.
Era il momento che l’ultima profezia avrebbe dovuto avverarsi, poi la coltre di morte sarebbe calata.
Per alcuni fece il prodigio di cambiare acqua in vino, per altri moltiplicò i pani per sfamarli, ma per lui si era accontentato di sostare vicino ad un pozzo domandando da bere ad una donna sconosciuta: “Dammi da bere”. Gesù conosceva l’arsura con la quale sarebbe morto e la sete traccia il tormento dell’anima dannata. “Padre Abramo, [così parlò  il ricco Epulone che giace nelle viscere del tartaro (inferno) rivolgendosi ad Abramo] abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere nell’acqua la punta del suo dito per rinfrescare la mia lingua, perché io spasimo in questa fiamma”.
Parlando della carità verso gli altri metteva in risalto il “bicchiere d’acqua” dato in suo nome.
Al Tempio, all’inizio della settimana, aveva esclamato, in un momento di depressione: “Ora la mia anima è turbata.” E che diro Io? “Padre, liberami da quest’ora”.
Poco tempo prima nella Giudea, in un altro momento triste pieno di contrarietà, aveva esclamato:“Padre, ti rendo lode perché hai nascosto queste cose ai saggi ed ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli.”
Per poter afferrare anche il lontano significato della preghiera di Gesù sarà bene aver presente una caratteristica della sua vita, che di solito non è tenuta in considerazione; Gesù nella sua vita fu uno che umanamente si direbbe un solitario.
Non è il caso di soffermarci sulla sua infanzia e nemmeno sui lunghi trent’anni passati durante i quali per quelli che lo conoscevano era soltanto “Non è costui il figlio del falegname?”.
In tutto quel periodo era soltanto il figlio del falegname e basta. Ed è per questa ragione che non poteva vantare nessun diritto, ma quando si rivelò “essi si scandalizzarono di Lui”.
In Galilea non ricevette certamente una buona accoglienza, chi lo riconosceva diceva: “E’ il profeta che deve venire al mondo”.
In Gerusalemme le cose andarono peggio, quelli che contavano socialmente lo osteggiavano, ma più lo osteggiavano più Gesù si imponeva “Come mai costui sa di lettere, se non ha mai studiato?”, “Noi sappiamo da dove viene quest’uomo, ma quando verrà il Cristo nessuno saprà donde sia”, “Vi è forse uno solo dei capi o dei farisei che abbia creduto in Lui?”, “Scruta le scritture e vedrai che un profeta non può venire da Nazareth”, “Non abbiamo noi ragione a dire che sei un samaritano e hai un demonio?”, “Ha un demonio ed è pazzo! Perché state ad ascoltarlo?”, “Da allora molti dei suoi discepoli si ritrassero e non andarono più con Lui”.
Ogni volta che si faceva vedere in Gerusalemme, in Galilea, poteva dire di non avere “dove posare il capo” e nella città santa non poteva mai passare una notte.
Anche con i suoi c’era tanta distanza che Gli faceva sentire il suo isolamento “Non avete ancora capito” aveva dovuto dire una volta sul lago di Galilea. Quante volte li aveva ripresi per mancanza di fede. Quante volte era in una situazione di contrasto e, con tutto l’amore che voleva far arrivare al cuore dei suoi, doveva ripiegarsi su se stesso disilluso.
Persino nell’ultima cena aveva dovuto sospirare: “Da tanto tempo sono con voi e voi non mi avete conosciuto”,  sospiro che fu ripreso un’ora dopo nell’orto: “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me”. Sono questi i momenti in cui Gesù sentiva viva la tristezza dell’isolamento che è comune a tutti gli uomini. Quando la folla lo osteggiava a Cafarnao, si rivolse ai suoi e disse: “Volete andarvene anche voi?”. Egli aveva guarito dieci lebbrosi ed uno solo tornò a Lui per ringraziarlo ed Egli osservò: “Non erano forse dieci i guariti? Dove sono gli altri nove?”

La sera prima che Gesù venisse messo in croce, nel cenacolo disse: “Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui voi sarete dispersi, ciascuno per conto suo e mi lascerete solo”.
In San Giovanni rimasero così vive le sue parole che le tenne come sfondo nel suo vangelo “Egli era nel mondo ed il mondo per mezzo di lui fu fatto ed il mondo non l’ha conosciuto. E’ venuto  nella sua proprietà ed i suoi non l’hanno accolto”.San Giovanni, San Matteo e San Luca gli fanno eco nel grido pieno d’angoscia “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono inviati a te! Quante volte io volli  radunare i tuoi figlioli, come la chioccia raduna i suoi pulcini sotto le ali e tu non hai voluto!”.
San Matteo e San Giovanni mettono per ben 40 volte sulle labbra di Gesù il nome del Padre, suo compagno indivisibile anche quando tutti lo abbandonavano:”Padre ti ringrazio! Padre, liberami da quest’ora! Padre l’ora è venuta! Io e il Padre siamo una cosa sola! Io non sono solo, il Padre è con me !”. La notte dell’ultima cena, all’entrata nell’orto, quando i suoi persecutori infierivano, Gesù disse “Non berrò io il calice che mio Padre mi ha dato?” Vediamo di comprendere che cosa c’era in fondo a questo calice., promise l’eterna beatitudine a quelli che gli avessero dato da bere.
Durante la predicazione nel Tempio, il punto più culminante sembra raggiunto quando Egli esclamò: “Se qualcuno ha sete venga a me e beva”. Dei suoi patimenti, questo fu l’unico che Gesù Cristo fece durante la sua passione. La perdita di sangue, il digiuno prolungato, avevano provocato in Gesù una sete insostenibile. D’altra parte non si trattava di una sete di cui Gesù potesse farne ameno, aveva superato le tentazioni nel deserto per quaranta giorni soffrendo la fame e la sete, ma in quel momento le scritture dovevano avere il loro pieno compimento, non si trattava di un lamento, ma di un comando.
Dopo ciò Gesù, sapendo che tutto era compiuto, affinché si adempissero le scritture, disse: “Ho sete”.
Le persone che erano presenti non avevano niente, anche Maria, sua Madre che intercedeva sempre per gli altri, aveva le mani vuote.Soltanto i soldati di guardia avevano la possibilità di ricorrere ed un rimedio.Nelle loro borracce avevano del vino, vino che i giudei usavano per le lunghe ore di guardia per stare svegli e che era più aceto che vino.Giaceva per terra una spugna, non deve far meraviglia la spugna perché veniva usata dai soldati per asciugarsi il sudore delle mani e della faccia per il caldo che faceva.

Un soldato afferrò la spugna, immergendola nel boccale, poi preso un bastone, un gambo d’issopo, lo fissò alla spugna così inzuppata, e l’accosto alle labbra insanguinate di Gesù. Gesù sorseggiò, anche se poche ore prima aveva rifiutato una bevanda che conteneva del narcotico.
Accettando voleva premiare quest’ultimo atto di carità fatto dal carnefice, che veniva rimproverato dai suoi compagni: “Lascia perdere, vediamo se viene Elia a salvarlo”.Gesù voleva onorare l’ultimo uomo che volle dargli refrigerio nell’ora del suo tormento.Era l’ultimo uomo che in terra gli faceva un servizio.
Gesù aveva detto: “Perché chi vi darà un bicchier d’acqua in mio nome, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa”.


La Sesta e la settima parola: “È giunta l'ora – Glorifica tuo figlio” 
 
Ormai tutto era compiuto. Le profezie, una dopo l’altra si erano avverate.La volontà del Padre era stata fatta fino all’ultima virgola: “Non sapete voi che io devo attendere le cose del Padre mio?”.La volontà del Padre era il principio e doveva essere la fine della vita terrena di Gesù. La sua opera era compiuta e Gesù poteva contemplarla dalla croce. Dio Padre aveva predisposto che Egli sarebbe stato il riscatto dell’umanità caduta nel peccato, Gesù doveva versare per tutti il suo sangue, tutto, fino l’ultima goccia. La missione di Gesù sulla terra era finita, l’aveva terminata nell’ultima cena, quando aveva elevato la preghiera al Padre:”Padre, l’ora è venuta: glorifica il tuo figlio, affinché tuo figlio glorifichi te. Io ti ho glorificato sulla terra compiendo la missione che Tu mi hai affidato, ed ora Tu, Padre, glorificami presso te stesso con la gloria che io ebbi da te quando il mondo non era”.
Dopo quella preghiera rimaneva ancora il calice da bere fino in fondo, ora l’aveva vuotato fino all’ultima goccia. Aveva comunicato ogni cosa e non poteva aggiungere altro.
Ora poteva deporre tranquillamente la sua vita in un supremo atto d’amore, l’aveva dichiarato in varie circostanze, che anche quel gesto doveva essere fatto in un atto di spontanea volontà.
Egli, che aveva chiamato alla vita diverse persone, ora doveva lasciare la propria per riprenderla dopo tre giorni. Non scese dalla croce all’invito fatto da presenti, ma, morendo, diede una nuova luminosità alla vita di tutti gli uomini. Gesù, nell’ultimo istante, abbracciò con uno sguardo il passato.
La storia di tutti gli uomini che vissero prima di quel tempo e dopo convergeva sempre a lui, dai piedi della croce iniziò il principio di un mondo nuovo. Con la voce morente nella desolazione che passava, si affidava al Padre:E quando ebbe preso l’aceto disse: “è finito”.
Gesù poi, gettando un grido a gran voce disse: “Padre nelle tue mani raccomando il mio spirito”; detto questo, chinato il capo, spirò. Il fatto più tremendo, che mai ebbe luogo su questa terra era ormai compiuto, il più grande amore di Dio si era manifestato. Gesù, il figlio di Dio fatto uomo, era morto e la terra portava il suo cadavere attraverso lo spazio ed il tempo.
La natura che da lungo tempo era in attesa della manifestazione del figlio di Dio, gemeva e soffriva le doglie del parto “si scosse” ed ecco che il sole si oscurò, il velo del tempio si squarciò in due parti da capo a fondo, e la terra tremò e le rocce si spezzarono, le tombe si scoperchiarono e molti corpi di santi che riposavano risuscitarono; uscirono dalle tombe e apparvero a molti nella città santa e non ritornarono che dopo la resurrezione di Lui”.
 

mercoledì 9 gennaio 2013

Monti Risponde al Cellulare Durante la Messa Dell'Epifania a San Pietro


Domenica 6 Gennaio 2013

Monti al telefonino durante la messa

Il premier parla al telefonino durante la messa dell'Epifania nella basilica di San Pietro

Anche il premier Mario Monti, accompagnato dalla moglie signora Elsa, ha assistito nella Basilica di San Pietro alla messa dell’Epifania nella quale Papa Benedetto XVI ha ordinato quattro nuovi arcivescovi, tra cui il proprio segretario personale mons. Georg Gaenswein.

Il presidente del Consiglio però non ha avuto problemi a rispondere al cellulare durante la messa. Cosa che ha stupito persino la moglie, rimasta incredula di fronte al comportamento del marito. Di sicuro avrà ricevuto una chiamata importante...Mha Chissà forse l'ha chiamato il Signore !!!

martedì 8 gennaio 2013

Peccato Veniale e Peccato Mortale


PECCATO VENIALE E PECCATO MORTALE

Catechismo della Chiesa Cattolica, Numeri 1846-1857

I. LA MISERICORDIA E IL PECCATO

Il Vangelo è la rivelazione, in Gesù Cristo, della misericordia di Dio verso i peccatori [Cf Lc 15 ]. L’angelo lo annunzia a Giuseppe: “Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). La stessa cosa si può dire dell’Eucaristia, Sacramento della Redenzione: “Questo è il mio sangue dell’Alleanza, versato per molti in remissione dei peccati” ( Mt 26,28 ).

“Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di noi” [Sant’Agostino, Sermones, 169, 11, 13: PL 38, 923].

L’accoglienza della sua misericordia esige da parte nostra il riconoscimento delle nostre colpe. “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa” ( 1Gv 1,8-9).

Come afferma san Paolo: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la Grazia”. La Grazia però, per compiere la sua opera, deve svelare il peccato per convertire il nostro cuore e accordarci “la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore” (Rm 5,20-21). Come un medico che esamina la piaga prima di medicarla, Dio, con la sua Parola e il suo Spirito, getta una viva luce sul peccato.

La conversione richiede la convinzione del peccato, contiene in sé il giudizio interiore della coscienza, e questo, essendo una verifica dell’azione dello Spirito di verità nell’intimo dell’uomo, diventa nello stesso tempo il nuovo inizio dell’elargizione della Grazia e dell’amore: “Ricevete lo Spirito Santo”. Così in questo “convincere quanto al peccato” scopriamo una duplice elargizione: il dono della verità della coscienza e il dono della certezza della redenzione. Lo Spirito di verità è il Consolatore [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dominum et Vivificantem, 31].

II. LA DEFINIZIONE DI PECCATO

Il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. Esso ferisce la natura dell’uomo e attenta alla solidarietà umana. È stato definito “una parola, un atto o un desiderio contrari alla legge eterna” [Sant’Agostino, Contra Faustum manichaeum, 22: PL 42, 418; San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, 71, 6].

Il peccato è un’offesa a Dio: “Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto” (Sal 51,6 ). Il peccato si erge contro l’amore di Dio per noi e allontana da esso i nostri cuori. Come il primo peccato, è una disobbedienza, una ribellione contro Dio, a causa della volontà di diventare “come Dio” (Gen 3,5), conoscendo e determinando il bene e il male. Il peccato pertanto è “amore di sé fino al disprezzo di Dio” [Sant’Agostino, De civitate Dei, 14, 28]. Per tale orgogliosa esaltazione di sé, il peccato è diametralmente opposto all’obbedienza di Gesù, che realizza la salvezza [Cf Fil 2,6-9].

È proprio nella Passione, in cui la misericordia di Cristo lo vincerà, che il peccato manifesta in sommo grado la sua violenza e la sua molteplicità: incredulità, odio omicida, rifiuto e scherno da parte dei capi e del popolo, vigliaccheria di Pilato e crudeltà dei soldati, tradimento di Giuda tanto pesante per Gesù, rinnegamento di Pietro, abbandono dei discepoli. Tuttavia, proprio nell’ora delle tenebre e del Principe di questo mondo, [Cf Gv 14,30] il sacrificio di Cristo diventa segretamente la sorgente dalla quale sgorgherà inesauribilmente il perdono dei nostri peccati.

III. LA DIVERSITÀ DEI PECCATI

La varietà dei peccati è grande. La Scrittura ne dà parecchi elenchi. La Lettera ai Galati contrappone le opere della carne al frutto dello Spirito: “Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il Regno di Dio” (Gal 5,19-21) [Cf Rm 1,28-32; 1Cor 6,9-10; Ef 5,3-5; 1852 Col 3,5-8; 1Tm 1,9-10; 2Tm 3,2-5 ].

I peccati possono essere distinti secondo il loro oggetto, come si fa per ogni atto umano, oppure secondo le virtù alle quali si oppongono, per eccesso o per difetto, oppure secondo i comandamenti cui si oppongono. Si possono anche suddividere secondo che riguardano Dio, il prossimo o se stessi; si possono distinguere in peccati spirituali e carnali, o ancora in peccati di pensiero, di parola, di azione e di omissione. La radice del peccato è nel cuore dell’uomo, nella sua libera volontà, secondo quel che insegna il Signore: “Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono immondo l’uomo” (Mt 15,19-20). Il cuore è anche la sede della carità, principio delle opere buone e pure, che il peccato ferisce.

IV. LA GRAVITÀ DEL PECCATO: PECCATO MORTALE E VENIALE

È opportuno valutare i peccati in base alla loro gravità. La distinzione tra peccato mortale e peccato veniale, già adombrata nella Scrittura, [Cf 1 Gv 5,16-17] si è imposta nella Tradizione della Chiesa. L’esperienza degli uomini la convalida.

Il peccato mortale distrugge la carità nel cuore dell’uomo a causa di una violazione grave della legge di Dio; distoglie l’uomo da Dio, che è il suo fine ultimo e la sua beatitudine, preferendo a lui un bene inferiore.

Il peccato veniale lascia sussistere la carità, quantunque la offenda e la ferisca.

Il peccato mortale, in quanto colpisce in noi il principio vitale che è la carità, richiede una nuova iniziativa della misericordia di Dio e una conversione del cuore, che normalmente si realizza nel Sacramento della Riconciliazione (Confessione).

Quando la volontà si orienta verso una cosa di per sé contraria alla carità, dalla quale siamo ordinati al fine ultimo, il peccato, per il suo stesso oggetto, ha di che essere mortale... tanto se è contro l’amore di Dio, come la bestemmia, lo spergiuro ecc., quanto se è contro l’amore del prossimo, come l’omicidio, l’adulterio, ecc... Invece, quando la volontà del peccatore si volge a una cosa che ha in sé un disordine, ma tuttavia non va contro l’amore di Dio e del prossimo, è il caso di parole oziose, di riso inopportuno, ecc., tali peccati sono veniali [San Tommaso d’Aquino, Summa Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, 88, 2].

Perché un peccato sia mortale si richiede che concorrano tre condizioni: “È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso” [Giovanni Paolo II, Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia, 17].

Dal Libro Del Profeta Isaia

 
(Is 55,10-11)

Come la pioggia o la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata.

giovedì 3 gennaio 2013

Santissimo Nome di Gesù "3 Gennaio"


Il Santissimo Nome di Gesù fu sempre onorato e venerato nella Chiesa fin dai primi tempi, ma solo nel secolo XIV cominciò ad avere culto liturgico. San Bernardino, aiutato da altri confratelli, sopratutto dai beati Alberto da Sarteáno e Bernardino da Feltre, diffuse con tanto slancio e fervore tale devozione che finalmente venne istituita la festa liturgica. Nel 1530 Papa Clemente VII autorizzò l'Ordine francescano a recitare l'Ufficio del Santissimo Nome di Gesù. Giovanni Paolo II ha ripristinato al 3 gennaio la memoria facoltativa nel Calendario Romano.

Il significato e la proprietà del nome
Anzitutto i nomi hanno un loro significato intrinseco, come appare dai nomi teofori (evocatori della divinità) e da quelli di alcuni eroi, che sono il simbolo della missione adempiuta da costoro nella storia. In secondo luogo, il nome ha un contenuto dinamico; rappresenta e in qualche modo racchiude in sé una forza. Esso designa l’intima natura di un essere, poiché contiene una presenza attiva di quell’essere. Platone diceva che “Chiunque sa il nome, sa anche le cose”; conoscerlo vuol dire conoscere la ‘cosa’ in se stessa. Il nome “occupa” uno spazio, ha la “proprietà” della cosa e la spiega. Il nome di nascita indica in primo luogo, l’”essenza” di una persona, le sue prerogative, le qualità e i difetti; pronunciandolo si è come in presenza di colui che si nomina, si dà ad esso una precisa dimensione. Così come fra i ‘primitivi’ che cercavano di conoscere il nome al fine di esercitare un potere su una persona o su qualsiasi cosa vivente, il nome è ancora indispensabile nel praticare un incantesimo; infatti i cosiddetti ‘maghi’ vogliono conoscerlo, per inciderlo su amuleti e talismani, accanto a quello delle Entità Invisibili.

Il nome nelle società antiche
Nell’antica Grecia i nomi provenivano da due categorie: 1) nomi di un dio o derivati da quello portato dalla divinità (Apollodoro, Apollonio, Eròdoto, Isidoro, Demetrio, Teodoro, ecc.); 2) nomi scelti come augurio per la futura vita del bambino, seguiti da quello della località di residenza o provenienza. I Romani imponevano ai neonati tre nomi: Il prenome scelto fra i diciotto più usati, che si abbreviava con la lettera iniziale, es. P = Publius (Publio), C = Caius (Caio), ecc. Il nome indicava la gens di appartenenza, es. Julius (della gens Julia). Il cognome indicante la famiglia, quando la gens d’origine si divideva in molte famiglie. Nei nomi di origine ebraica, particolarmente quelli maschili, si nota quasi sempre una invocazione a Dio, l’eterno creatore, dal quale il popolo ebraico trasse sempre forza nella sua travagliata esistenza.

Il nome nella mentalità semitica
Per i semiti i nomi propri avevano un significato intrinseco; questo era indicato dalla loro stessa composizione, dalla etimologia od era evocato dalla pronuncia. Nel costume popolare, due usanze sembrano comunemente diffuse; in primo luogo l’imposizione di nomi teofori, con cui si voleva porre il bambino sotto la protezione della divinità, oppure si intendeva ringraziare e pregare la divinità per il lieto evento (es. Isaia = Iahvé salva; Giosuè = Iahvé è salvezza, ecc.).
In secondo luogo, l’attribuzione di nomi che esprimono qualche circostanza o particolarità della nascita dei bambini, es. (Gen. 35, 16-18) “… Rachele, sul punto in cui le sfuggiva l’anima, perché stava morendo a causa del penoso parto, chiamò il figlio appena nato, col nome di Ben-Oni (figlio del mio dolore)…”. Così pure, per gli ebrei c’era la tendenza a fare del nome, il simbolo del significato religioso o politico degli eroi nazionali e religiosi; così interpretato, il nome era in un rapporto molto più significativo con la persona che caratterizzava; Eva è “la madre di tutti i viventi”, Abramo è “il padre di una moltitudine”, Giacobbe è “colui che soppianta”, ecc.
Nella concezione semitica, il nome ha anche un aspetto dinamico, che corrisponde alla forza, alla potenza che il nome rappresenta e in qualche modo include; dove c’è il nome c’è la persona, con la sua forza, pronta a manifestarsi. Conoscere qualcuno per nome, vuol dire conoscerlo fino in fondo e poter disporre della sua potenza. Questo concetto svolge un ruolo importante applicato agli esseri superiori, che non sono conoscibili normalmente da parte dell’uomo; la sola conoscenza che si può avere di essi è quella del loro nome. Il nome del dio nasconde la sua presenza misteriosa e rappresenta il mezzo più accessibile di comunicazione tra l’uomo e lui. Quindi nella sfera del ‘mistero’ sia esso magico che religioso, chi conosce il nome del dio e lo pronunzia, ha la forza di farsi ascoltare da lui e di farlo intervenire a suo favore. Infine nella Tradizione semitica c’è inoltre il concetto, che chi impone a qualcuno il nome che deve portare o gli cambia il nome che possiede, esprime il potere assoluto, la sovranità, che detiene su quello (Ge. 2), così come Adamo impose i nomi a tutto il bestiame di cui poteva usufruire. Anche il Dio degli Ebrei esprime il suo dominio assoluto, imponendo e mutando i nomi di Abram in Abraham e Sarai in Sara (Ge. 17, 5-15) e di Giacobbe in Israel (Ge. 32, 29), acquistando così tali nomi nuovi significati.

Il nome di Dio nella Bibbia
L’esigenza di sapere il nome della divinità in cui si crede, è stato sempre intrinseco nell’animo umano, perché il nome stesso è garanzia della sua esistenza; a tal proposito si riporta un passo dell’opera di Francesco Albergamo “Mito e Magia” che scrive: “Una bambina di nove anni chiede al padre se Dio esiste; il padre risponde che non ne è troppo sicuro, al che la piccola osserva: Bisogna pure che esista, dal momento che ha un nome”. Quindi quando Mosè (Es. 3) viene chiamato da Dio alla sua missione fra il popolo ebraico, logicamente gli chiede il suo Nome da poter comunicare al popolo, che senz’altro gli chiederà “Chi ti ha riconosciuto principe su di noi?”. E il Dio di Israele, conosciuto inizialmente come il “Dio degli antenati”, il “Dio di Abramo di Isacco di Giacobbe”, oppure con espressioni particolari: “El Shaddai”, “Terrore di Isacco”, “Forte di Giacobbe”, rivela il suo nome “Iahvé”, che significa “Egli è”; e questo Nome entrò così a far parte della vita religiosa degli israeliti, e mediante gli interventi sovrani nella storia, il nome di Iahvé divenne famoso e noto. I profeti ed i sommi sacerdoti, lungo tutta la storia d’Israele, posero al centro della liturgia il nome di Iahvé, con la professione di fede del profeta, l’invocazione solenne di Dio, la fede e la glorificazione di tutto il popolo (Commemorazione, invocazione, glorificazione del suo Nome). Nel tardo giudaismo però, per il bisogno di sottolineare la trascendenza divina, il nome di Iahvé non è stato più pronunciato e Dio è stato designato col termine Nome e con altri appellativi, come Padre a sottolineare lo speciale rapporto che lega Dio e il suo popolo.

Il nome del Padre
Ma solo nel Nuovo Testamento, sulla bocca di Gesù e dei credenti, il nome di Padre attribuito a Dio, assume il suo vero significato. Solo Gesù, infatti conosce il Padre e può efficacemente rivelarlo (Mt.11, 27-28). Gesù si è riferito spesso a Dio chiamandolo Padre, nel Vangelo di s. Giovanni, Padre viene usato addirittura come sinonimo di Dio e secondo l’evangelista questa è la sua vera definizione, questo è il nome che esprime più profondamente l’essere divino. Tale nome è stato manifestato agli uomini da Gesù, ed essi ora sanno che, se credono, sono figli insieme a lui.
Inoltre Gesù ha anche insegnato a pregare Dio con questo titolo “Padre nostro…” e questa è diventata la preghiera per eccellenza della comunità cristiana. Gesù aveva chiesto al Padre di glorificare il suo nome (Giov. 12, 28) e aveva invitato i discepoli a pregare così: “Sia santificato il tuo nome”; Dio ha risposto a queste preghiere, manifestando la potenza del suo nome e glorificando il proprio figlio. Ai credenti è affidato il compito di prolungare questa azione di glorificazione; essi lodano, testimoniano il nome di Dio e devono comportarsi in modo che il nome divino non riceva biasimo e bestemmie (Rom. 2, 24).

Il nome del Signore Gesù
Il Messia ha portato durante la sua vita terrena il nome di Gesù, nome che gli fu imposto da san Giuseppe dopo che l’angelo di Dio in sogno gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché ciò che in lei è stato concepito è opera dello Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt.1, 21-25). Quindi il significato del nome Gesù è quello di salvatore; gli evangelisti, gli Atti degli Apostoli, le lettere apostoliche, citano moltissimo il significato e la potenza del Nome di Gesù, fermandosi spesso al solo termine di “Nome” come nell’Antico Testamento si indicava Dio.
Nel corso della vita pubblica di Gesù, i suoi discepoli, appellandosi al suo nome, guariscono i malati, cacciano i demoni e compiono ogni sorta di prodigi: Luca, 10, 17, “E i settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome”; Matteo 7, 22, “… Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti prodigi nel tuo nome?”. Atti 4, 12, “…Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale possiamo avere la salvezza”. Risuscitando Gesù e facendolo sedere alla sua destra, Dio “gli ha donato il nome che è sopra di ogni nome” (Ef. 1, 20-21); si tratta di un “nome nuovo” (Ap. 3, 12) che è costantemente unito a quello di Dio. Questo nome trova la sua espressione nell’appellativo di Signore, che conviene a Gesù risorto, come allo stesso Dio Padre (Fil. 2, 10-11). Infatti i cristiani non hanno avuto difficoltà ad attribuire a Gesù, gli appellativi più caratteristici che nel giudaismo erano attribuiti a Dio. Atti 5, 41: “Ma essi (gli apostoli) se ne partirono dalla presenza del Sinedrio, lieti di essere stati condannati all’oltraggio a motivo del Nome”. La fede cristiana consiste nel professare con la bocca e credere nel cuore “che Gesù è il Signore, e che Dio lo ha ridestato dai morti” e nell’invocare il nome del Signore per conseguire la salvezza (Rom. 10, 9-13). I primi cristiani, appunto, sono coloro che riconoscono Gesù come Signore e si designano come coloro che invocano il suo nome, esso avrà sempre un ruolo preminente nella loro vita: nel nome di Gesù i cristiani si riuniranno, accoglieranno chiunque si presenti nel suo nome, renderanno grazie a Dio in quel nome, si comporteranno in modo che tale nome sia glorificato, saranno disposti anche a soffrire per il nome del Signore.
L’espressione somma della presenza del Nome del Signore e dell’intera SS. Trinità nella vita cristiana, si ha nel segno della croce, che introduce ogni preghiera, devozione, celebrazione; e conclude le benedizioni e l’amministrazione dei sacramenti: “Nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Il culto liturgico del Nome di Gesù Il SS. Nome di Gesù, fu sempre onorato e venerato nella Chiesa fin dai primi tempi, ma solo nel XIV secolo cominciò ad avere culto liturgico.
Grande predicatore e propagatore del culto al Nome di Gesù, fu il francescano san Bernardino da Siena (1380-1444) e continuato da altri confratelli, soprattutto dai beati Alberto da Sarteano (1385-1450) e Bernardino da Feltre (1439-1494). Nel 1530, papa Clemente VII autorizzò l’Ordine Francescano a recitare l’Ufficio del Santissimo Nome di Gesù; e la celebrazione ormai presente in varie località, fu estesa a tutta la Chiesa da papa Innocenzo XIII nel 1721. Il giorno di celebrazione variò tra le prime domeniche di gennaio, per attestarsi al 2 gennaio fino agli anni Settanta del Novecento, quando fu soppressa. Papa Giovanni Paolo II ha ripristinato al 3 gennaio la memoria facoltativa nel Calendario Romano.

Il trigramma di san Bernardino da Siena
Affinché la sua predicazione non fosse dimenticata facilmente, Bernardino con profondo intuito psicologico inventò un simbolo dai colori vivaci che veniva posto in tutti i locali pubblici e privati, sostituendo blasoni e stemmi delle varie Famiglie e Corporazioni spesso in lotta fra loro.
Il trigramma del nome di Gesù, divenne un emblema celebre e diffuso in ogni luogo, sulla facciata del Palazzo Pubblico di Siena campeggia enorme e solenne, opera dell’orafo senese Tuccio di Sano e di suo figlio Pietro, ma lo si ritrova in ogni posto dove Bernardino e i suoi discepoli abbiano predicato o soggiornato. Qualche volta il trigramma figurava sugli stendardi che precedevano Bernardino, quando arrivava in una nuova città a predicare e sulle tavolette di legno che il santo francescano poggiava sull’altare, dove celebrava la Messa prima dell’attesa omelia, e con la tavoletta al termine benediceva i fedeli. Il trigramma fu disegnato da Bernardino stesso, per questo è considerato patrono dei pubblicitari; il simbolo consiste in un sole raggiante in campo azzurro, sopra vi sono le lettere IHS che sono le prime tre del nome Gesù in greco ??S??S (Iesûs), ma si sono date anche altre spiegazioni, come l’abbreviazione di “In Hoc Signo (vinces)” il motto costantiniano, oppure di “Iesus Hominum Salvator”. Ad ogni elemento del simbolo, Bernardino applicò un significato, il sole centrale è chiara allusione a Cristo che dà la vita come fa il sole, e suggerisce l’idea dell’irradiarsi della Carità. Il calore del sole è diffuso dai raggi, ed ecco allora i dodici raggi serpeggianti come i dodici Apostoli e poi da otto raggi diretti che rappresentano le beatitudini, la fascia che circonda il sole rappresenta la felicità dei beati che non ha termine, il celeste dello sfondo è simbolo della fede, l’oro dell’amore. Bernardino allungò anche l’asta sinistra dell’H, tagliandola in alto per farne una croce, in alcuni casi la croce è poggiata sulla linea mediana dell’H. Il significato mistico dei raggi serpeggianti era espresso in una litania; 1° rifugio dei penitenti; 2° vessillo dei combattenti; 3° rimedio degli infermi; 4° conforto dei sofferenti; 5° onore dei credenti; 6° gioia dei predicanti; 7° merito degli operanti; 8° aiuto dei deficienti; 9° sospiro dei meditanti; 10° suffragio degli oranti; 11° gusto dei contemplanti; 12° gloria dei trionfanti.
Tutto il simbolo è circondato da una cerchia esterna con le parole in latino tratte dalla Lettera ai Filippesi di san Paolo: “Nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, sia degli esseri celesti, che dei terrestri e degli inferi”.Il trigramma bernardiniano ebbe un gran successo, diffondendosi in tutta Europa, anche s. Giovanna d’Arco volle ricamarlo sul suo stendardo e più tardi fu adottato anche dai Gesuiti. Diceva s. Bernardino: “Questa è mia intenzione, di rinnovare e chiarificare il nome di Gesù, come fu nella primitiva Chiesa”, spiegando che, mentre la croce evocava la Passione di Cristo, il suo Nome rammentava ogni aspetto della sua vita, la povertà del presepio, la modesta bottega di falegname, la penitenza nel deserto, i miracoli della carità divina, la sofferenza sul Calvario, il trionfo della Resurrezione e dell’Ascensione. In effetti Bernardino ribadiva la devozione già presente in san Paolo e durante il Medioevo in alcuni Dottori della Chiesa e in s. Francesco d’Assisi, inoltre tale devozione era praticata in tutto il Senese, pochi decenni prima dai Gesuati, congregazione religiosa fondata nel 1360 dal senese beato Giovanni Colombini, dedita all’assistenza degli infermi e così detti per il loro ripetere frequente del nome di Gesù.

La Compagnia di Gesù, prese poi queste tre lettere come suo emblema e diventò sostenitrice del culto e della dottrina, dedicando al Ss. Nome di Gesù le sue più belle e grandi chiese, edificate in tutto il mondo. Fra tutte si ricorda, la “Chiesa del Gesù” a Roma, la maggiore e più insigne chiesa dei Gesuiti; vi è nella volta il “Trionfo del Nome di Gesù”, affresco del 1679, opera del genovese Giovanni Battista Gaulli detto ‘il Baciccia’; dove centinaia di figure si muovono in uno spazio chiaro con veloce impeto, attratte dal centrale Nome di Gesù.

Messaggio Della Madonna di Medjugorje Dato a Mirjana Dragicevic, il 2 Gennaio 2013


Messaggio Della Madonna di Medjugorje Dato a Mirjana Dragicevic, il 2 Gennaio 2013

Cari figli, con molto amore e pazienza, cerco di rendere i vostri cuori simili al mio Cuore. Cerco di insegnarvi, col mio esempio, l'umiltà, la sapienza e l'amore, perché ho bisogno di voi, non posso senza di voi, figli miei. Secondo la volontà di Dio vi scelgo, secondo la sua forza vi rinvigorisco. Perciò, figli miei, non abbiate paura di aprirmi i vostri cuori. Io li darò a mio Figlio ed Egli, in cambio, vi donerà la pace divina. Voi lo porterete a tutti coloro che incontrate, testimonierete l'amore di Dio con la vita e, tramite voi stessi, donerete mio Figlio. Attraverso la riconciliazione, il digiuno e la preghiera, io vi guiderò. Immenso è il mio amore. Non abbiate paura! Figli miei, pregate per i pastori. Che le vostre labbra siano chiuse a ogni condanna, perchè non dimenticate: mio Figlio li ha scelti, e solo Lui ha il diritto di giudicare. Vi ringrazio.